“È meglio citare Truffaut” si diceva, dunque in assenza temporanea di furor scribendi continuerò la mia rassegna. Con una piccola deroga stavolta, ché non sono riuscito a procurarmi in francese, per ora, La mariée était en noir (La sposa in nero, 1967). Ne parlerò non appena lo vedrò.
Antoine et Colette (Antoine e Colette, 1962) è uno dei cinque episodi che compongono il film collettivo L'amour à vingt ans (L’amore a vent’anni, 1962); con questo cortometraggio Truffaut torna sul personaggio di Antoine Doinel (protagonista di Les quatre-cents coups), ora diciassettenne: il giovane vive da solo, si guadagna da vivere lavorando e, per la prima volta nella sua vita, si innamora. La brevità del film non consente particolari giudizi sulla regia, se non l’uso interessantissimo della voce narrante, già sperimentato in Jules et Jim (non a caso, forse, la voce narrante in Antoine et Colette è proprio quella di Henri Serre, l’attore che interpreta Jim). Il punto di forza, come sempre, è il ricorso all’emozione, all’identificazione; il tutto passa attraverso l’esplorazione interiore di un personaggio a cui ci si affeziona, che si conosce via via, che diventa quasi un amico o un alter-ego.
La peau douce (La calda amante, 1964) ci catapulta in un immaginario molto lontano da quelli fin qui visti. Parrebbe un classico dramma borghese, un uomo di mezza età che si innamora di una giovane donna e porta avanti con lei una relazione adulterina. Come sempre però, Truffaut riesce a tenersi lontano dai cliché del genere, sia attraverso il suo linguaggio registico (attenzione ai dettagli, gestione dei tempi e dei campi) sia per quanto riguarda i contenuti: oltre al finale decisamente inaspettato, qui Truffaut ribalta completamente lo spirito di Jules e Jim, libero e libertino, mostrando quanto di pratico, abitudinario, contingente, assolutamente non poetico ci sia in un amore, e come questo amore non possa che esistere in una forma socialmente accettata e aperta. E poi c’è la bellissima Françoise Dorléac, che da sola merita la pellicola (leggetevi un po’ qui chi è).
Fahrenheit 451 (1966), tratto dal conosciutissimo romanzo di Bradbury (uno di quelli che ti fanno sempre leggere i primi anni del liceo), rivede la comparsa di Oskar Werner (già visto nei panni di Jules), che interpreta Montag, agente della squadra di pompieri incaricata, in un futuro distopico ma nemmeno così tanto, di incendiare tutti i libri al mondo. Il periodo in cui è stato girato il film è quello che è, e qui più che altrove possiamo vedere il nostro Truffaut sessantottino. Sulla trama non mi dilungo, è cosa nota; interessante è invece la scelta di Truffaut di dare un finale piuttosto diverso rispetto al libro, non tanto nella forma (anzi, ancora una volta dimostra gran fedeltà rispetto alle sue fonti), quanto nel messaggio di fondo. Vedrete e capirete.
Baisers volés (Baci rubati, 1968) è il terzo capitolo della saga di Antoine Doinel; ormai ultraventenne, il giovane esplora il mondo femminile e relazionale, cambia più volte lavoro, compagnie, gusti, in un continui altalenare fra prese di coscienza della maturità e necessità di imporsi sulla propria vita, che ormai diventa “seria”. La consueta leggerezza di Truffaut è qui operante all’ennesima potenza, variando dalla nostalgia, alla malinconia, alle piccole gioie, alle preoccupazioni quotidiane. A essere sinceri, la prima oretta di film è piuttosto deludente perché, a parte l’emozione iniziale nel rivedere il volto ormai noto/personale di Antoine, la noia ha il sopravvento. Ma nell’ultima mezz’ora… Wow. Prima col meraviglioso personaggio di Fabienne Tabard, la donna-visione matura che entra di prepotenza nella vita di Antoine con un folata di poesia, poi con le tre scene finali, una più toccante dell’altra (registicamente ed emotivamente), Truffaut gioca le sue carte migliori regalando una delle conclusioni forse più commoventi della storia del cinema. Certo, un gran ruolo lo giocano la colonna sonora (Charles Trenet, Que reste-t-il de nos amours?, che potete ascoltare qui sopra) e le vedute di Montmartre…