Ciao a tutti, sono Enrico e conosco la
Atlas da più di cinque
anni.
Non ricordo l’ora o il giorno o il mese in cui è successo,
né l’occasione, ma credo sia un effetto collaterale comprensibile. Fu amore,
questo è certo. Ma andiamo con ordine (tuttavia… è possibile ordinare
l’insondabile? Classificare l’ignoto?), credo sia ora di fare le dovute
presentazioni.
La Atlas è una birra, per cominciare. Dove “una” non sta per
“una qualsiasi” ma per “una in particolare”. È imbarazzante dare una
definizione, per me. Sono troppo coinvolto, bisognerebbe essere obiettivi. Tipo
quando si chiede a una mamma “chi è il bimbo più bello del mondo?” o a un
tifoso di calcio “qual è la squadra più forte?” (NdA: è il Napoli, ovviamente).
Ma, amici, non riesco a mettere da parte le emozioni, davvero.
Dicevamo. Non saprei raccontarvi come ho conosciuto cotale
delizia, ma di certo è successo nel reparto bevande alcoliche del discount
sotto casa mia. Ebbene si, in quel Parnaso dello shopping, nei Campi Elisi dei
generi alimentari a basso costo, lì, proprio lì, si consumarono i primi mesi
del nostro amore.
Le feste estive sul terrazzo di casa dei miei – quando i
miei ovviamente non c’erano – prevedevano per contratto l’acquisto di una cassa
ogni due persone, dove una cassa equivale a sei per quattro uguale ventiquattro
lattine, ognuna da zero virgola cinque litri, dalla gradazione alcolica di otto
virgola cinque percento. Contando che si era sempre fra i dieci e i quindici
invitati, fate un po’ voi i conti.
Oh, Atlas, dolce Atlas.
Ricordo anche incubi notturni, fatti di pirati, crostacei
giganti, civiltà aliene e divinità perverse tipo Cthulhu. Nossignore, non è un
invito a bere, non ci penso neanche. È come se vi descrivessi la mia ragazza
invitandovi poi a scoparvela. Pussa via. Non sareste degni dell’iniziazione all’Atlas.
Tornando a noi, continuammo ad amarci per i miei anni
torinesi (il mio coinquilino, quando me ne andai, iniziò l’edificazione di un
muro di lattine di Atlas, romanticone), ma non era più la stessa cosa, perché la
sede torinese del discount era a settecento metri da casa. Sicché fra noi
qualcosa si incrinò. La rottura definitiva fu due anni fa, quando mi trasferii
a Milano.
Fato beffardo, quel discount a Milano ha solo due o tre sedi
e tutte lontane. Ero in astinenza, lo ammetto. Decantai le lodi della Atlas ai
miei nuovi coinquilini, era quasi un culto, uno di quelli dove l’oggetto dell’adorazione
è tanto più grande quanto più trascende l’esperienza corporea. Era un gigante
mitico, Atlas, il titano, restituito alla sua alterità oltreumana.
Finché, una domenica sera, desiderosi di rinfrescarci la
gola, ci recammo nell’unico minimarket aperto alle ventidue, gestito da
indonesiani. “Dal cinegro”, lo avremo chiamato poi, con affetto e riverenza.
Ebbene lì, nel frigo verticale del minimarket, come un sole blu trapuntato di
rosso, mi apparve la Atlas. Piccole dosi, si, come di un privato nettare
prezioso, ma andava bene.
Da quella sera, mai più comprammo altra birra, per un anno.
Alle Colonne di San Lorenzo, al Magnolia, al Parco Sempione,
persi nelle campagne Brianzole o in quelle Pavesi, in nessun posto andavamo,
senza una lattina di Atlas in borsa. Panacea, viatico; ammetto che buona parte
delle mie poesie, quelle del libro, sono state scritte sotto amoroso effetto
dell’Atlas.
Poi, venne l’anno in collegio, in quel limbo
interdimensionale lontano da discount o cinegri. Adesso sto bene, si. Ma ogni
tanto mi ritrovo a sognarla, fredda e liscia, con quel titano stampato sopra,
il retrogusto ferroso, l’odore di Suriname.
So che ci rivedremo, un giorno, e sarà come se non fossi mai
uscito dalle porte scorrevoli di quel discout.