Recensire è cosa da arroganti, saccenti, superbi, irrispettosi, acidi, ipercritici, pignoli, alteri, presuntuosi, boriosi, prepotenti, pedanti, polemici e così via. Tutte cose che più o meno mi appartengono, quindi vi annoierò ancora una volta con il mio giudizio riguardo qualcosa, come se ve ne importi. Se poi ciò che vado a recensirvi è il romanzo di un mio amico, la paraculata è evidente.
Perciò partirò dai difetti.
“Non ce la farò mai a scrivere un libro” di Andrea Dilillo (Aletti editore, 2011) è una raccolta di racconti che solo parzialmente riesce a essere un romanzo. L’intento metaletterario, evidente fin dal titolo, è affannoso e, in fin dei conti, deludente. Lo stile è imperfetto, a volte banale, di certo discontinuo. Le descrizioni spesso sono didascaliche e si esauriscono in un’aggettivazione semplicistica.
Ok, ok, così sembrerebbe che ve lo voglia sconsigliare. Ma no, non è questa l’intenzione. Il primo e finora unico romanzo di Dilillo è in realtà veramente interessante e “appetitoso”, nel senso che, una volta entrati nella fine macchina narrativa sapientemente costruita dall’autore, difficilmente si riuscirà a interrompere la lettura.
Ma andiamo con ordine.
“Non ce la farò mai a scrivere un libro” è un insieme di racconti, apparentemente indipendenti, tenuti insieme da una cornice metanarrativa: un giovane scrittore (lo stesso Dilillo?) non riesce a concretizzare la sua ispirazione letteraria e raccoglie, via via, i suoi esperimenti. I primi racconti, brevi, semplici, stilisticamente carenti, sono seguiti da narrazioni via via più lunghe, complesse, ben scritte. Una sorta di auto-“romanzo di formazione” letteraria. Fin qui, come ho detto, niente più che un insieme di racconti. Le storie però – ed è, all’inizio, solo un presentimento; solo a metà libro si ha la certezza, e solo alla fine si capisce la portata dell’operazione – non sono slegate fra loro. Sono, anzi, tasselli di un unico, corale, romanzo. L’opera allora acquista un’interessante sfumatura: è un romanzo che in realtà è una serie di racconti che in realtà sono un romanzo. Il tutto è, quasi pirandellianamente, ancora più complesso: il surrealismo dell’autore, che compone tante piccole storie, singole, indipendenti, che alla fine, quasi magicamente, vanno a formare un quadro coerente e organico, è davvero coinvolgente.
La trama, come ci si può aspettare, non esiste in quanto tale. I racconti, posti a livelli cronologici diversi, sono tutti incentrati su singoli personaggi. Il nucleo narrativo è, anzi, sempre la storia del personaggio. Sono come tanti piccoli romanzi di formazione, di personaggi improbabili ma realistici – e i punti di forza dell’opera sono proprio l’introspezione dei personaggi e il loro spessore psicologico – che vanno a formare una “genealogia” grottesca e malata. Malata, già, come malati sono gli scenari e le situazioni in cui si muovono i protagonisti: in ordine sparso un prete mistico e pedofilo, un’assistente sociale attratta dalla morte, uno stupratore supereroe, un pittore drogato di dolore, una defecatrice per professione, un vecchio che torna giovane, sono solo alcuni dei protagonisti di questa “parata selvaggia”.
Dilillo racconta l’assurdità non tanto della società moderna, quanto dell’uomo e delle sue relazioni sociali e sentimentali. Ma c’è qualcosa in più. C’è una riflessione, costante, sul trascendente, che poi, nella visione dell’autore, non è tanto lontana dal contingente: il bene, il male, il destino, la sofferenza, Dio, tutto traspira dai racconti; e prende via via concretezza un sistema filosofico (che espressione brutta e abusata… sto perdendo colpi), teorizzato in maniera esplicita – due o tre dei racconti hanno proprio questo aspetto “cosmogonico” – ma presente in filigrana a tutti i racconti.
Insomma, davvero una buona prima prova da scrittore, che si presta a numerose considerazioni e analisi. Ma a farle vi rovinerei il piacere della lettura (anche perchè ho usato già troppe volte parole orribili come "metaletterario", "metanarrativo" et similia). Quindi vi lascio il sito della casa editrice, dove potrete compralo (se lo fate e mi inviate una foto di voi col libro in mano, vi vengo a offrire da bere):
Sito della casa editrice dove potrete comprare il libro e se lo fate vi offro blablabla...
Buona lettura!
Perciò partirò dai difetti.
“Non ce la farò mai a scrivere un libro” di Andrea Dilillo (Aletti editore, 2011) è una raccolta di racconti che solo parzialmente riesce a essere un romanzo. L’intento metaletterario, evidente fin dal titolo, è affannoso e, in fin dei conti, deludente. Lo stile è imperfetto, a volte banale, di certo discontinuo. Le descrizioni spesso sono didascaliche e si esauriscono in un’aggettivazione semplicistica.
Ok, ok, così sembrerebbe che ve lo voglia sconsigliare. Ma no, non è questa l’intenzione. Il primo e finora unico romanzo di Dilillo è in realtà veramente interessante e “appetitoso”, nel senso che, una volta entrati nella fine macchina narrativa sapientemente costruita dall’autore, difficilmente si riuscirà a interrompere la lettura.
Ma andiamo con ordine.
“Non ce la farò mai a scrivere un libro” è un insieme di racconti, apparentemente indipendenti, tenuti insieme da una cornice metanarrativa: un giovane scrittore (lo stesso Dilillo?) non riesce a concretizzare la sua ispirazione letteraria e raccoglie, via via, i suoi esperimenti. I primi racconti, brevi, semplici, stilisticamente carenti, sono seguiti da narrazioni via via più lunghe, complesse, ben scritte. Una sorta di auto-“romanzo di formazione” letteraria. Fin qui, come ho detto, niente più che un insieme di racconti. Le storie però – ed è, all’inizio, solo un presentimento; solo a metà libro si ha la certezza, e solo alla fine si capisce la portata dell’operazione – non sono slegate fra loro. Sono, anzi, tasselli di un unico, corale, romanzo. L’opera allora acquista un’interessante sfumatura: è un romanzo che in realtà è una serie di racconti che in realtà sono un romanzo. Il tutto è, quasi pirandellianamente, ancora più complesso: il surrealismo dell’autore, che compone tante piccole storie, singole, indipendenti, che alla fine, quasi magicamente, vanno a formare un quadro coerente e organico, è davvero coinvolgente.
La trama, come ci si può aspettare, non esiste in quanto tale. I racconti, posti a livelli cronologici diversi, sono tutti incentrati su singoli personaggi. Il nucleo narrativo è, anzi, sempre la storia del personaggio. Sono come tanti piccoli romanzi di formazione, di personaggi improbabili ma realistici – e i punti di forza dell’opera sono proprio l’introspezione dei personaggi e il loro spessore psicologico – che vanno a formare una “genealogia” grottesca e malata. Malata, già, come malati sono gli scenari e le situazioni in cui si muovono i protagonisti: in ordine sparso un prete mistico e pedofilo, un’assistente sociale attratta dalla morte, uno stupratore supereroe, un pittore drogato di dolore, una defecatrice per professione, un vecchio che torna giovane, sono solo alcuni dei protagonisti di questa “parata selvaggia”.
Dilillo racconta l’assurdità non tanto della società moderna, quanto dell’uomo e delle sue relazioni sociali e sentimentali. Ma c’è qualcosa in più. C’è una riflessione, costante, sul trascendente, che poi, nella visione dell’autore, non è tanto lontana dal contingente: il bene, il male, il destino, la sofferenza, Dio, tutto traspira dai racconti; e prende via via concretezza un sistema filosofico (che espressione brutta e abusata… sto perdendo colpi), teorizzato in maniera esplicita – due o tre dei racconti hanno proprio questo aspetto “cosmogonico” – ma presente in filigrana a tutti i racconti.
Insomma, davvero una buona prima prova da scrittore, che si presta a numerose considerazioni e analisi. Ma a farle vi rovinerei il piacere della lettura (anche perchè ho usato già troppe volte parole orribili come "metaletterario", "metanarrativo" et similia). Quindi vi lascio il sito della casa editrice, dove potrete compralo (se lo fate e mi inviate una foto di voi col libro in mano, vi vengo a offrire da bere):
Sito della casa editrice dove potrete comprare il libro e se lo fate vi offro blablabla...
Buona lettura!
Se ho ben capito l'Aletti è una ce a pagamento, e di solito rifiuto di leggere qualsiasi cosa pubblicata da case editrici a pagamento, ad ogni modo la tua recensione mi ha incuriosito, mi piace l'uso sapiente del termine metaletterario specie quando va sconfessato. La defecatrice di professione potrebbe convincermi all'acquisto, certo che quei piedazzi in copertina mettono ansia.
RispondiEliminasi, è a pagamento, se non fosse un amico non avrei mai letto questo libro, lo ammetto. Piacevole sorpresa!
RispondiEliminaConcordo coi piedi. Quand poi sai che sono dell'autore, all'ansia si unisce il disgusto.