Per noi europei non è facile capire la profondità dei supereroi americani. Sono un prodotto che apprezziamo e consumiamo, ma come puro oggetto di intrattenimento. Per gli americani invece sono qualcosa di più: sono la loro mitologia. Si, noi abbiamo l’Iliade, l’Odissea, secoli e secoli di letteratura, un patrimonio di immagini, situazioni, archetipi che arricchiscono il nostro ipertrofico immaginario collettivo; loro no, sono lì da due o tre secoli appena, la loro storia più antica riguarda la conquista dell’ovest, i padri pellegrini, David Crockett e poco altro. Dove far giacere i tanto adorati “valori tradizionali”? Da quale patrimonio attingere immagini, metafore, esempi? Dalla tradizione europea, certo; ma l’alterità americana, di cui tanto loro si vantano e su cui, volente o nolente, si costruiscono la loro immagine, ha avuto bisogno, a partire almeno dagli anni della grande depressione, di nuovi dei e nuovi eroi, nuovi modelli di riferimento e nuove basi su cui modellare il sogno americano. E cosa più dei supereroi incarna il mito del selfmade-man, della giustizia fai-da-te figlia della corsa al west, della dirompente voglia di emergere come singola personalità all’interno della società?
Non a caso, dopo appena sessant’anni, Superman, Batman, Spiderman, Flash (e chi più ne ha più ne metta) sono a buon diritto entrati nell’immaginario collettivo anche per noi europei (che viviamo ormai di riflesso alle mode statunitensi – ironica la sorte, eh?); per gli americani sono invece le basi della cultura popolare, del linguaggio, della morale, sono una vera e propria mitologia, appunto.
E come per tutti i linguaggi ad alto grado di formalizzazione, anche quello supereroistico è “affetto” da un retorica spesso fastidiosa. Che sia la retorica dell’eroe senza macchia, alla Superman, o quella del vigilante oscuro e mascherato, in stile Batman, poco importa; il carattere mitologico comporta una stilizzazione dei caratteri e dei topoi e tende a presentare un manicheismo marcato (per noi europei addirittura stucchevole).
Non è un caso che sia proprio un inglese, Alan Moore, a rimescolare le carte in tavola: l’autore di Watchmen, quello che da molti è ritenuto il capolavoro dei comics “all’americana”, in nessuna delle sue opere si mostra indulgente verso gli standard del genere supereroistico. Anzi, proprio in Watchmen (uscito fra il 1985 e 1986, in 12 numeri) Moore opera un ribaltamento dei tradizionali caratteri degli eroi in calzamaglia: i supereroi – che non vengono mai chiamati con questo nome, ed è già un segnale – non hanno poteri né ambizioni né competenze paragonabili a quelle di un Superman o di un Batman o di uno Spiderman; sono uomini e donne comuni che, per un motivo o per l’altro, hanno indossato un costume e si sono dati alla giustizia personale. Non ci sono, in Watchmen, il bene e il male, ci sono solo opinioni diverse, e l’autore ben si guarda dal dare giudizi a proposito (se proprio ci si vuole fare un’idea della posizione di Moore, meglio volgersi a "V per vendetta", altro suo capolavoro). Il tutto si configura come una riflessione sul potere e sull’autorità: fino a che punto ha senso il concetto di autorità costituita? Dove finisce la responsabilità dello stato e dove inizia quella del vigilante? L’eroismo è un motivo sufficiente per darsi il potere di imporre la propria giustizia, o è solo l’anticamera del fascismo? E nel caso, sarebbe poi così sbagliato?
Questi temi, trattati con una profondità mai vista nel mondo dei comics (se non in Miller, "Il ritorno del cavaliere oscuro", non a caso degli stessi anni), non sempre possono essere compresi da noi europei, perché le categorie politiche americane sono parecchio diverse dalle nostre; Moore ne è cosciente, e gioca spesso con l’ambiguità statunitense nel parlare di fascismo, comunismo e democrazia.
Oltre a essere un’analisi politica, Watchmen è la rappresentazione di tante piccole personalità, ognuna profondamente umana (con l’eccezione, di cui parleremo dopo, del Dottor Manhattan), con i propri sogni, il proprio passato, la propria morale e le proprie speranze; è un discorso sulle pazzie della folla e della società di massa, sempre sull’orlo di trasformarsi in branco; è una meditazione sui limiti della scienza e sulle sue grandi potenzialità; è una riflessione sulla divinità, sul trascendente, incarnati nel personaggio del Dottor Manhattan, l’unico fornito di superpoteri, che vive nel mondo ma al di là di esso, che conosce la realtà al di là del tempo e delle illusioni sensibili; insomma, i piani del discorso sono numerosi e tutti affrontati con profondità e originalità. Si potrebbe quasi dire che Moore si serva di un universo supereroistico solo per avere un quadro di riferimento ben preciso, un’ambientazione che gli permetta, in termini mitologico-simbolici, di affrontare un vasto spettro di problemi diversi, attingendo alla più popolare delle mitologie contemporanee, quella appunto dei comics americani.
Da un punto di vista letterario, Watchmen eccelle per la magistrale gestione della materia narrativa e dei tempi del racconto, sempre dosati alla perfezione e mai pesanti o frenetici; l’azione è quasi inesistente, e dove c’è è funzionale al discorso generale; il racconto si dipana su più livelli temporali, retti da un buon sistema di flashback e digressioni; i dialoghi cercano di evitare la retorica, sebbene qualche piccola concessione “epica” sia presente.
Gibbons, alle matite, sfoggia un tratto piacevole ma tutto sommato non originale; il design dei personaggi è curato e suggestivo, ma non si tratta di un innovatore come Miller, per esempio. La grandezza di Gibbons sta nel taglio fortemente registico e nei dettagli: numerosi sono i riferimenti iconici e simbolici sparsi nell’opera, come le rappresentazioni di orologi, piramidi, smile; mai gratuiti, sempre ancorati alla storia, ma allo stesso tempo investiti di una specificità appunto simbolica, quindi in una certa misura trascendente.
Insomma, se amate i fumetti americani, non potete non leggere Watchmen. Se li detestate, prendetevi una bella rivincita su di loro, leggendo Watchmen. Se vi sono indifferenti, leggete Watchmen e cambierete idea. Se non frequentate molto il genere (come me) e volete solo leggere una grande opera, leggete Watchmen. Non ci sono scuse!
P.S. stavolta vi risparmio la mia pedanteria e invece della sitografia vi lascio solo il banalissimo link alla pagina di wikipedia... Ci sarebbero troppe cose da dire!
E come per tutti i linguaggi ad alto grado di formalizzazione, anche quello supereroistico è “affetto” da un retorica spesso fastidiosa. Che sia la retorica dell’eroe senza macchia, alla Superman, o quella del vigilante oscuro e mascherato, in stile Batman, poco importa; il carattere mitologico comporta una stilizzazione dei caratteri e dei topoi e tende a presentare un manicheismo marcato (per noi europei addirittura stucchevole).
Non è un caso che sia proprio un inglese, Alan Moore, a rimescolare le carte in tavola: l’autore di Watchmen, quello che da molti è ritenuto il capolavoro dei comics “all’americana”, in nessuna delle sue opere si mostra indulgente verso gli standard del genere supereroistico. Anzi, proprio in Watchmen (uscito fra il 1985 e 1986, in 12 numeri) Moore opera un ribaltamento dei tradizionali caratteri degli eroi in calzamaglia: i supereroi – che non vengono mai chiamati con questo nome, ed è già un segnale – non hanno poteri né ambizioni né competenze paragonabili a quelle di un Superman o di un Batman o di uno Spiderman; sono uomini e donne comuni che, per un motivo o per l’altro, hanno indossato un costume e si sono dati alla giustizia personale. Non ci sono, in Watchmen, il bene e il male, ci sono solo opinioni diverse, e l’autore ben si guarda dal dare giudizi a proposito (se proprio ci si vuole fare un’idea della posizione di Moore, meglio volgersi a "V per vendetta", altro suo capolavoro). Il tutto si configura come una riflessione sul potere e sull’autorità: fino a che punto ha senso il concetto di autorità costituita? Dove finisce la responsabilità dello stato e dove inizia quella del vigilante? L’eroismo è un motivo sufficiente per darsi il potere di imporre la propria giustizia, o è solo l’anticamera del fascismo? E nel caso, sarebbe poi così sbagliato?
Questi temi, trattati con una profondità mai vista nel mondo dei comics (se non in Miller, "Il ritorno del cavaliere oscuro", non a caso degli stessi anni), non sempre possono essere compresi da noi europei, perché le categorie politiche americane sono parecchio diverse dalle nostre; Moore ne è cosciente, e gioca spesso con l’ambiguità statunitense nel parlare di fascismo, comunismo e democrazia.
Oltre a essere un’analisi politica, Watchmen è la rappresentazione di tante piccole personalità, ognuna profondamente umana (con l’eccezione, di cui parleremo dopo, del Dottor Manhattan), con i propri sogni, il proprio passato, la propria morale e le proprie speranze; è un discorso sulle pazzie della folla e della società di massa, sempre sull’orlo di trasformarsi in branco; è una meditazione sui limiti della scienza e sulle sue grandi potenzialità; è una riflessione sulla divinità, sul trascendente, incarnati nel personaggio del Dottor Manhattan, l’unico fornito di superpoteri, che vive nel mondo ma al di là di esso, che conosce la realtà al di là del tempo e delle illusioni sensibili; insomma, i piani del discorso sono numerosi e tutti affrontati con profondità e originalità. Si potrebbe quasi dire che Moore si serva di un universo supereroistico solo per avere un quadro di riferimento ben preciso, un’ambientazione che gli permetta, in termini mitologico-simbolici, di affrontare un vasto spettro di problemi diversi, attingendo alla più popolare delle mitologie contemporanee, quella appunto dei comics americani.
Da un punto di vista letterario, Watchmen eccelle per la magistrale gestione della materia narrativa e dei tempi del racconto, sempre dosati alla perfezione e mai pesanti o frenetici; l’azione è quasi inesistente, e dove c’è è funzionale al discorso generale; il racconto si dipana su più livelli temporali, retti da un buon sistema di flashback e digressioni; i dialoghi cercano di evitare la retorica, sebbene qualche piccola concessione “epica” sia presente.
Gibbons, alle matite, sfoggia un tratto piacevole ma tutto sommato non originale; il design dei personaggi è curato e suggestivo, ma non si tratta di un innovatore come Miller, per esempio. La grandezza di Gibbons sta nel taglio fortemente registico e nei dettagli: numerosi sono i riferimenti iconici e simbolici sparsi nell’opera, come le rappresentazioni di orologi, piramidi, smile; mai gratuiti, sempre ancorati alla storia, ma allo stesso tempo investiti di una specificità appunto simbolica, quindi in una certa misura trascendente.
Insomma, se amate i fumetti americani, non potete non leggere Watchmen. Se li detestate, prendetevi una bella rivincita su di loro, leggendo Watchmen. Se vi sono indifferenti, leggete Watchmen e cambierete idea. Se non frequentate molto il genere (come me) e volete solo leggere una grande opera, leggete Watchmen. Non ci sono scuse!
P.S. stavolta vi risparmio la mia pedanteria e invece della sitografia vi lascio solo il banalissimo link alla pagina di wikipedia... Ci sarebbero troppe cose da dire!
Devo proprio leggerlo!Non ci sono più scuse.
RispondiEliminaAnomali e troppo umani.
RispondiEliminaio sto forse finendo quelli da uno...erano tanti, ma valevano poco...
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