venerdì 7 ottobre 2011

Narratio - "Le solitudini di Arnaut" I


Grezze scanalature solcavano il boccalone di legno, erano sedici e salivano verso l’alto, in maniera irregolare. In realtà tutta quella bettola aveva un qualcosa di anomalo, sembrava sbilenca, storta. Ma Arnaut era sicuro che non lo fosse, quando ci era entrato qualche minuto/ora/giorno prima. E allora, con un po’ di sillogismi aristotelici, ci arrivò. Era la birra che aveva storto la sua prospettiva. La dolce, amara birra. Scura, pastosa, torbida. Diavolo, non avrebbe dovuto bere così tanto. Il solito cretino. È che all’inizio non se ne accorgeva mai, che stava superando la misura. Il che non era grave. Ma ogni sera diventava problematico. Soprattutto la mattina dopo quando andava alla lettura. Boezio non andava d’accordo con il mal di testa e il vomito.
Arnaut si sollevò con fatica, facendo leva sul tavolone con le braccia, urtando quello seduto a fianco a lui. Che per fortuna era ancora più ubriaco e nemmeno se ne accorse. Dunque. Prima di tutto doveva capire in che taverna fosse. Non ricordava se fosse giunto con qualche compagno o meno. Ora gli importava fare due-quattro-sei-otto-dieci-o-quanti-diavolo-fossero passi fino alla casa di Louis diacono, dove dormiva lui. Ma, appunto, innanzitutto bisognava capire dove fosse. Strinse lo sguardo e si guardò lentamente intorno, era tutto un po’ fosco e lattiginoso. Doveva essere al centro della stanza, perché non vedeva muri più vicini di altri, per quanto quel tugurio desse l’impressione di cadergli in testa da un momento all’altro. Ci mise un po’ ma individuò l’uscita: si diresse con passo incerto e dondolante in quella direzione, non c’erano ostacoli, non c’erano persone, non c’erano distrazioni, tranne quelle voci assordanti che si accavallavano e gridavano improperi, canti, il suo nome, il nome del Signore, somme di denaro, debiti e facezie di tutti i tipi. C’era quasi, un paio di passi.
E tutto bianco.
D’improvviso.
Un montone gli sfondò il ventre flaccido.
Si sentì cadere all’indietro, senza fiato, con le budella che gli salivano verso l’alto, su, fino alla testa e per qualche secondo vide bianco, solo bianco, candido, serafini, troni e podestà, un coro di beati e poi di nuovo la nebbiolina e di nuovo le travi sbilenche, poi di colpo un grugno diabolico, un emissario di Gog e Magog, un Bafometto dagli occhi chiari e dalla mascella sporgente. Ma non c’erano fiamme né zolfi, solo una puzza di vino e stufato di pecora vecchia, che usciva dalla sua bocca in forma di parole irruente: - Pezzo di merda, ci senti o no? Tu da qui non esci se non paghi. Non vivo, almeno -; Arnaut fece uno sforzo cognitivo notevole e capì che no, non era ancora la sua ora, o meglio forse lo sarebbe stata fra poco, ma non era il demonio quello, ma l’oste, un oste cattivo e plebeo. Ecco, non poteva che essere “ai due orsi”, l’avrebbe dovuto capire dalla birra scura, una delle più buone della Rive gauche.
Arnaut provò a biascicare qualcosa, a spiegare che non aveva soldi, che lui era uno studente e nulla più, a inventare che era il figlio del tal duca in incognito, che era il fratello del tal vescovo, ma niente, in men che non si dica era sul retro della taverna in mezzo a due orsi, forse i due orsi dell’insegna, l’oste e suo fratello, uguale a lui ma più grosso e più cattivo. Lo pestarono a lungo e con crudeltà, gli spaccarono un sopracciglio a suon di nocche, lo azzopparono con un pestone e lo riempirono di lividi sul ventre e lo presero a calci nelle pudenda.
Arnaut rimase lì, come un vecchio idolo di Babilonia, in un angolo, tutto rotto, a tossire e sputare sangue. Poi riuscì, in un impeto di lucidità tutt’altro che aristotelica, a rialzarsi. Gli faceva male tutto, indistintamente, e forse era meglio così, altrimenti si sarebbe accorto delle costole rotte e della caviglia slogata. Lo avevano svegliato, quelle violenze. Ora sapeva dov’era. Sapeva dove doveva andare.

Ecce enim veritatem dilexisti:
incerta et occulta sapientiae tuae manifestasti mihi.
Asperges me, Domine, hyssopo, et mundabor;
lavabis me, et super nivem dealbabor.
Auditui meo dabis gaudium et laetitiam,
et exsultabunt ossa humiliata.
Averte faciem tuam a peccatis meis,
et omnes iniquitates meas dele. (1)

Lo ruminò a lungo questo pezzo dei Salmi, tornando a casa.

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(1) Ma Tu vuoi la sincerità del cuore,
e nella mia notte, mi fai conoscere la sapienza.
Purificami con issòpo e sarò mondato;
lavami e sarò bianco ancor più della neve.
Fammi sentire letizia e gioia,
esulteranno le ossa che hai spezzato.
Distogli il Tuo sguardo da ogni mio peccato,
cancella tutte le mie colpe. (Salmo 51)

giovedì 6 ottobre 2011

Meditatio de Autumno novo II - "Cum + Legere = Amentia"

[Come il lettore scafato capirà,
si parlerà anche di giostre. Ma non queste]


Insomma, sprazzi di “ispirazione” (ma già ho detto cosa ne penso io di questo concetto). Raccontini formato blog. Rigurgiti adolescenziali. Divagazioni alla Vasco Brondi dopo che s’è ascoltato tutta la discografia di Marco Masini. Marco Masini, molti di voi non lo sapranno, ha anche cantato la sigla di…



Fa un po’ parte del gioco schizofrenico del crearsi tanti begli alterego e popolarci questi fogli elettronici. Poco a che vedere con la letteratura. Però ci sono interessanti cose da analizzare. Piacciono molto i post che parlano del rapporto uomo-donna o di sesso. L’argomento degli argomenti! Dall’Iliade a Tre metri sopra il cielo (basta citare Moccia, porcocazzo), sempre quest’ossessione.
Chissà se piacciono anche i post senza senso né misura né finalità come questo. Un post non di fictio. Che poi stando dietro una tastiera il confine è sottile. Chissà se ero io il protagonista dei raccontini qui sotto, per esempio... Penso che la corrispondenza autore-protagonista sia un lusso che solo Dante può permettersi.
Mi perdonerete se straparlo e divago. Non è la prima volta. È che la vita in collegio è qualcosa di strano, piena zeppa di materiale narrativo, materiale narrativo in forma di tette, birra, personaggi grotteschi, solitudine, manoscritti in fac-simile.
Collegio, ci informa il buon (ma datato) dizionario etimologico Ottorino Pianigiani, deriva dal lat. COLLIGERE, “raccogliere insieme”, composto di COM < CUM e LEGERE, ossia raccogliere, scegliere. Insomma, radunare una mandria di squilibrati. L’Ottorino Pianigiani lo definisce: “Convitto per la educazione di giovani appartenenti a civili famiglie”.
Sarà.
Va bene, la smetto, prima che mandiate un’equipe di alienisti a farmi internare.
Anche perché alle giostre che hanno deciso di allestire giusto dietro la finestra della mia stanza stanno facendo passare da mezz’ora, nell’ordine, “Dragonball GT”, “Quando i bambini fanno oh!”, “Gioca jouer”, “Le tagliatelle di nonna Pina” e “Calimero dance”.
Cose che fanno riflettere.

mercoledì 5 ottobre 2011

Narratio - "Pseudo-Moccia"


Quella notte era una cagna dal ventre atro e arcuato che correva stupidamente cercando di mordersi la coda. Camminavo da un paio d’ore, senza un motivo e senza una meta. Gli eleganti palazzi deserti provavano a spaventarmi con le loro luci alogene di emergenza e i loro cortili bruciacchiati, ma io all’epoca ero un ragazzo coraggioso, si, ero indomito e battagliero, non potevano essere degli ammassi di pietra e mattoni e vetro e carne e agglomerati di anime a intimorirmi. Non ricordo che mese fosse, mi pare febbraio o marzo; ricordo che era un lunedì perché di lunedì facevano il lavaggio strade in quella zona. Una camionetta mi sradicò l’udito con le sue diaboliche spazzole che castravano l’asfalto, nel vano tentativo di togliere le gomme da masticare e altre schifezze. La quantità di gomme da masticare attaccate per terra era impressionante. Quella notte ne contai centottantuno, prima di annoiarmi. Poteva essere un interessante indicatore sociale, quello delle gomme. Chissà interpretabile in che modo.
Mi piacerebbe poter dire che non incontrai Brigida per caso, eviterei noiosissimi e ritriti pipponi pseudo-Moccia sul destino e sull’amore e cose così, però davvero, ve lo giuro, la incontrai per caso. Lei non sapeva dove fosse la fermata del 16, io non sapevo spiegarglielo e a dire il vero non avevo tanta voglia di provare a farlo. Ma andavo in quella direzione, così facemmo un centinaio di metri assieme. Camminavamo a un metro e mezzo di distanza, io stretto nella mia sciarpa, lei nel suo cappotto verde. Parlammo intensamente, ma solo nella nostra testa. Mentalmente mi raccontò che aveva ventidue anni e studiava greco miceneo, che aveva una nonna scampata ai campi di concentramento, che suonava l’oboe, che amava Verlaine, che una volta aveva bevuto così tanto da inciampare e cadere addosso a un vigile, che però era stato gentile e non le aveva detto niente, che amava la Normandia, che il suo pittore preferito era Gauguin e che le piaceva il tonno scottato alla piastra. Anche che si chiamava Brigida me l’aveva detto con la trasmissione del pensiero.
- Grazie, buonanotte -, disse mentre saliva sul 16, sorridendomi appena.
Immobile, feci lo stesso.
Lo sferruzzare acre dei binari mi riempì per qualche secondo le orecchie, poi l’ultimo tram della nottata si disciolse nella città, lasciando un sentore di piscio e di mandorla nell’aria.
Non penso di ricordare il numero di telefono che mi lasciò telepaticamente.

domenica 2 ottobre 2011

Narratio - "Niente di personale, niente di programmato"


[immagine di Eleonora Prado]


Il gruppo dei nichilisti giocava a calciobalilla in un angolo della sala. Erano cinque e giocavano senza entusiasmo. Il quinto, Rutger, a dire il vero non giocava. Era il classico amico di troppo, perché a calciobalilla si gioca in quattro. Stava appoggiato con una spalla contro il pilone e in mano teneva il suo Long Island, sorseggiandolo con affettazione.
Dei quattro giocatori, un paio soltanto erano interessanti.
Luigi detto “Morchia”, difensore dei rossi, era davvero davvero nichilista, più degli altri quattro nichilisti. Giocava rassegnato.
Flea, l’attaccante dei blu, segnava facilmente ma non si entusiasmava, perché era nichilista, sebbene non così tanto come il Morchia.
Bilbo e Chris passavano proprio inosservati, e la cosa piaceva loro, ma non troppo.
Tutto stava andando male quella sera, ma proprio male come un nichilista si aspetta. Faceva caldo, si sudava, Rutger tirava su il suo cocktail con la cannuccia, Morchia sbuffava prendendo un gol, Flea segnava e si grattava la testa, Bilbo e Chris non pervenuti. Nemmeno il passaggio di una castana da paura (che è una terminologia un po’ anni ’80, ma la cosa ai cinque piaceva, per quanto qualcosa possa piacere a un nichilista) li distolse dalla loro routine. Aveva due tette non da ridere e non era neanche troppo punk. Solo un paio di tatuaggi in vista e appena un piercing al naso. I capelli erano corti, ma non colorati. Insomma, una tipa a posto. Sembrava essere interessata a Flea. I bomber fanno sempre colpo.
C’erano i Rammstein in sottofondo. Bé, sottofondo. Coprivano tutto.
Rutger muoveva la testa a ritmo. Piano piano, s’intende. Guardava qualcosa in fondo alla sala, su un muro. Lo spazio fra due pietre, forse. C’era una crepa, fra quelle due pietre, sarebbe caduto tutto, tutto. In testa a loro. Ma non sarebbero scappati, no. A che pro? L’Oscuro Mietitore avrebbe fatto calare la falce sulle loro teste lo stesso, prima o poi. È che è stupido fare locali ricavati in dei magazzini fluviali, questo pensava Rutger. Acqua che da secoli si infiltra, si infiltra, si infiltra, scava, scava, scava e poi un bel giorno, sabato 2 ottobre 2011 alle ore 01.02, BAM.
La ragazza si era avvicinata al calciobalilla, sorrideva.
- Chi vince? -, esordì con un sorriso, che tradiva due o tre cocktail di troppo.
- Loro -, rispose senza enfasi il Morchia. Gli altri tacevano, e giocavano senza trasporto.
Rutgar continuava a fissare la crepa.
L’Oscuro Mietitore ancora non si vedeva.
La ragazza fece una smorfia, ma Flea le piaceva, era un bel ragazzo. Su di lui era interessante l’aura di scazzo. Così rimase lì. Anzi, si appoggiò al calciobabilla, dalla parte della porta rossa, così stava vicino alla sua preda.
Flea segnò ancora, con un bel tiro da centrocampo.
- Bravo! - fece la ragazza con trasporto, tentando di imbastire una conversazione.
- Veramente è stato un caso, ho tirato, è entrata. Tutto qui -, disse Flea con tono piatto e distaccato.
- Bé dai, stai segnando un casino!
- Questo è vero, ma è il Morchia che è scarso.
- Ha ragione -, ammise il Morchia senza entusiasmo.
Rutgar aveva finito il Long Island, il dj aveva deciso che era ora di Aphex Twin, la crepa non si allargava e di cappucci e falci nemmeno l’ombra.
A ottobre a Torino non può fare così caldo. Stava decisamente arrivando la fine del mondo, tutti ci speravano lì in mezzo.
- Mi offri una birra? - azzardò la ragazza.
- Si può fare - si pronunciò Flea.
- Tanto abbiamo perso -, fece il Morchia.
Bilbo e Chris, non pervenuti.
Rutger si distrasse un attimo vedendo la coppietta che si avviava al bancone. Morchia gli si avvicinò: - Carina -, disse.
- Già -, replicò, immobile, Rutger.
- Secondo te se la fa?
- E anche se fosse?
- Boh.
- Si, se la fa, comunque.
- Buon per lui.
- Già.
- E se non se la fa?
- Che vuol dire “se non se la fa”?
- Se non se la fa.
- Bé, se non se la fa, non se la fa -, disse con tono un po’ scocciato Rutger. Ora si era voltato verso il Morchia, dando sempre le spalle alla colonna umidiccia.
- Mh.
- Perché, te la vuoi fare tu?
- No macheccentra, dicevo per dire.
- Tu non dici mai per dire.
- Ma che dici? Io dico sempre per dire!
- Tu dici per dire che dici sempre per dire, ecco cosa dici!
Flea e la ragazza presero due birre in quei brutti bicchieri di plastica. La ragazza si chiamava Bea e studiava fisioterapia. A Flea bastava sapere questo. A Bea piaceva che il suo nome facesse rima con quello di lui. Però si chiese se non si dovesse pronunciare “Flia”. Ma lo sapeva lui, come si chiamava, eccheccavolo. Di certo il suo non si pronunciava “Bia”. Quindi amen. Flea. Bea.
- E te che studi?
- Lavoro.
- Cosa fai?
- Il cameriere.
- Ah, figo, dove?
- In una pizzeria in zona Corso Belgio.
- Figo, una volta ti vengo a trovare!
- Non ti piacerebbe.
- Perché?
- La pizza è una merda e in cucina ci sono gli scarafaggi.
- Ah…
Mentre Bilbo e Chris continuavano a fare cose non degne di nota, il Morchia e Rutger decisero di sedersi sui divanetti lerci.
- Non è che devi sempre pensare che io abbia impellenti necessità sessuali -, riprese il Morchia.
- Non lo penso sempre.
- Oh.
- Solo stavolta.
- T’ho detto che non mi interessa! E poi se la sta baccagliando Flea.
- Ok, ok, come ti pare.
Rutger si annoiò subito dell’argomento e riprese a fissare la crepa. La fissava con ardore, come se volesse provocarla. La fine del mondo. Sarebbe arrivata prima o poi, prima o poi.
- E’ che alla fine mi va sempre male con le tipe… - riprese il Morchia, ora lamentoso.
- Cristodio, ricominciamo.
- Flea se le fa sempre tutte.
- 1) è più figo; 2) chissenefrega.
- Uff… Sempre con me ve la prendete.
Bilbo e Chris nulleggiavano amabilmente. Il dj passò a qualcosa di più indie, Artic Monkeys.
- Senti, sono un po’ ubriaca e quindi te lo dico chiaro e tondo… - disse Bea sorridendo.
- Mh.
- Mi piaci.
- Anche tu mi piaci.
- Andiamo a fare un giro?
- Ok.
Bea prese per mano Flea e se lo trascinò fuori, ridendo e socchiudendo gli occhi. Il Morchia sbuffò, Rutger sorrise a mezza bocca, poi tornò alla crepa, ai suoi mantra per la fine del mondo. Sentiva che mancava poco. Flea si sarebbe salvato si, ormai era fuori. Ma era giusto così. Per ripopolare il pianeta lui sarebbe stato perfetto. Quella tipa poi prometteva bene.
Rutger chiuse gli occhi, forte, “They said it changes when the sun goes down, over the river going out of town”, tutto sarebbe sparito in quel momento, così, tutto doveva finire, finire per ricominciare o semplicemente finire e basta, senza rimorsi, senza offendersi, non avrebbero sofferto, o avrebbero sofferto ma non c’erano problemi, niente di grave, è anche questo la vita, figurarsi la morte, tutto sarebbe diventato nero e a forma di spirale, tutto sarebbe collassato, sarebbe morto lo spazio e sarebbe finito il tempo, due concetti senza senso da lì in poi, spazio, tempo, tette, calciobalilla, cocktail, tutto avrebbe perso senso, il senso avrebbe perso senso, nulla, nulla, anche l’idea di nulla sarebbe svanita, tutto sarebbe imploso, esploso, annullato, ma niente di personale, niente di programmato, nessun problema, nessun rancore, solo uno slancio gratuito, immotivato, cieco, istintivo, di nichilismo.

venerdì 30 settembre 2011

Alius Carmen - "Casa sul mare"


ll viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l’anima che non sa più dare un grido.
Ora I minuti sono eguali e fissi
come I giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d’acqua che rimbomba.
Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio.

Il viaggio finisce a questa spiaggia
che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
la marina che tramano di conche
I soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l’isole dell’aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.

Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell’ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s’appressa
l’ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s’infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l’avara mia speranza.
A’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.

Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m’ode
salpa già forse per l’eterno.


(Eugenio Montale, Casa sul mare, in Ossi di Seppia, 1925)

mercoledì 28 settembre 2011

Meditatio de Autumno novo I


No, è che uno non si rende conto che il tempo passa. E tutte quelle attività che dovrebbero essere cicliche, vengono bypassate e sostituite da bisogni primari/secondari/accessori/voluttuari. Sicché ci si dimentica sovente di pranzare, di andare a correre, di aggiornare il blog, di studiare con regolarità. Ci si dà belle e buone scuse legate in qualche modo all’ispirazione, alle muse, al clima, all’umore. Ma in realtà non siamo programmati per far combaciare i nostri tempi con quelli del mondo. E con mondo intendo due cose:

  1. il mondo mondo, quello fisico e metafisico creato da nonsisacchì tanto tempo fa, con le sue belle stagioni, i cicli lunari, gli anni, i giorni e se proprio vogliamo anche i cicli vitali (nascita, riproduzione, morte…);
  2. il mondo come consorzio sociale degli uomini, fatto di orari d’ufficio, giorni di vacanza, levate mattutine, feste comandate, pause sabbatiche, sessioni di esami, aperitivi…

E non è vero, cazzo, che l’uomo è un animale sociale. Non nell’accezione comune, almeno. L’uomo è un animale e basta. Ed è talmente debole da aver bisogno di altri per fare quello che la maggior parte delle altre specie fa anche in solitudine: sopravvivere. Una mammella i primi mesi, una compagna fugace per perpetrare la specie e via. Se andiamo poi nell’universo dei non-mammiferi, si può fare a meno pure di questo.
Animale asociale. E pure debole. Capace di grandi cose, tutte perfettamente inutili. Pronto a costruirsi una realtà farlocca e autoconvincersi che sia quello lo status quo, “il migliore dei mondi possibili”.